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Summum jus summa iniuria

È arcinota la massima ciceroniana: summum jus summa iniuria, che può essere tradotta, secondo Fernando Palazzi: l’estremo diritto è la massima ingiustizia. Ossia: il riferirsi in modo del tutto formale al dettato di norme, che quanto più sono lontane nel tempo tanto più possono non rispecchiare la realtà presente, può indurre a giudizi solo apparentemente fondati, ma sostanzialmente errati. Simile riflessione nasce in me leggendo di vertenze giudiziarie riguardanti le banche.

La domanda da porsi è: quanto può discostarsi il cittadino dall’applicazione puramente formale di norme ormai regolanti istituti non più coincidenti con la realtà? E, quindi: senza essere imputato di caduta nelle sabbie mobili di potenziali reati?

Le vicende giudiziarie delle banche popolari, per esempio, si riconnettono, anche, con una normativa concernente le società cooperative non più corrispondente a situazioni specifiche. Il che non è solo dovuto al passare del tempo e al palesarsi di una nuova realtà, ma anche: all’incapacità o alla reputata impossibilità di autoriformarsi da parte delle banche popolari; al superamento di fatto dello spirito di cooperazione nella gestione concreta degli affari, nel caso delle banche; al prendere atto dell’iner­zia del legislatore in materia; al non volere rinunciare ai vantaggi riservati alle cooperative, anche se nel concreto i rapporti giuridici ed economici posti in essere non sono più quelli tipici giustificanti la scelta della società cooperativa. E via elencando. La società cooperativa, per l’attività bancaria, si giustifica nella coincidenza della posizione dell’azionista sia come socio sia come cliente, per assicurare lo svolgimento di un’attività economica in una data area, come la richiesta e l’offerta di servizi e prodotti finanziari, che possano concretarsi con vantaggio nell’ambito di una comunità di soggetti, in vari aspetti. Vi è un concetto sottinteso di mutualità per appagare i bisogni di un gruppo sociale. Concetto non più rispondente alla realtà presente.

Superate tali pre­condizioni, dopo la seconda guerra mondiale – con un’attività bancaria disciplinata e controllata, incline a norme di applicazione generale per i soggetti operanti; con il diffondersi dei prodotti e dei servizi finanziari e con il superamento di situazioni prettamente locali; con le sollecitazioni, di fatto, alla crescita delle dimensioni degli intermediari creditizi e finanziari – si è progressivamente accresciuta la distanza tra la normativa specifica delle società cooperative bancarie, per continuare nell’esempio, e la realtà. Per altro con una diffusa contrarietà a promuovere o a solle­ citare mutamenti normativi, determinando alla fine situazioni di autoreferenzialità di gruppi organizzati di soci e di fatto un notevole disinteresse della maggior parte dei soci alle vicende di governo delle banche cooperative. Nelle quali il legislatore, per altro, detta la norma che gli amministratori debbono essere soci, senza tenere in considerazione i requisiti di professionalità e di esperienza richiesti, sì da tradursi, in concreto, in aspetti più formali che sostanziali. Fino al punto di accettare il concetto che gli amministratori di una cooperativa banca si autodefiniscano per principio “indipen­denti”. Alla fine spostando i poteri decisionali e di strategia nel management o conferendo, anche superando aspetti formali, deleghe improprie a taluni amministratori. Tutte situazioni che, a un certo punto, hanno determinato una riforma, per molti aspetti inadeguata, del sistema delle banche cooperative italiane.

Osservazioni similari possono proporsi, per altro, anche alle banche private con capitale di riferimento in un gruppo familiare. È naturale il desiderio che una banca controllata da una famiglia permanga in simile situazione, ma è evidente che non tutti i discendenti, maschi e/o femmine, abbiano propensione e capacità di diventare banchieri. La distinzione tra proprietà, ossia la composizione dell’azionariato, e la gestione degli affari, val dire il management, si impone viepiù, ed è anche la condizione per consentire operazioni di aggregazione, mediante fusioni, tra banche all’origine controllate da una famiglia. Per altro il legislatore può solo auspicare che ciò si concreti, ma non può imporlo.
Orbene, le autorità di direzione e di controllo dell’attività bancaria, in Europa, hanno indicato alcuni requisiti richiesti per essere amministratori e/o manager di banche. Tra di essi: oltre all’esperienza concreta operativa vi è l’assenza di conflitti di interesse, effettivi e/o potenziali. Condizioni, si conferma, che non possono essere imposte, escludendo specifici soggetti, ma che richiederebbero una non partecipazione alla gestione attiva di soggetti che siano anche significativi soci di una banca. Le leggi formali non vietano che il socio di riferimento sia anche amministratore delegato di una banca, ma le norme di vigilanza prevedono che un amministratore che si avvalga di informazioni privilegiate desumibili dalle scelte della clientela o che anteponga gli interessi degli azionisti a quelli degli altri stakeholkders, danneggiando tali ultimi, sono passibili di sanzioni.

La tutela del diritto di una persona ad accedere a cariche amministrative e dirigenziali di un’impresa, si scontra dunque con la possibilità che un dato soggetto sia in effettivi o potenziali conflitti di interesse o che, pur dovendo agire come intermediario, si avvalga, a proprio vantaggio, di informazioni privilegiate.
Meglio rinunciare al dominio di una famiglia nella gestione? Sospingendo verso fusioni? O avvalersi di norme tradizionali, certi che i soggetti familiari proposti non cadranno in situazioni di conflitti di interesse o di insider? Forse il dibattito merita di essere aperto.