Approfondimenti

Portare indietro l’orologio della storia?

Si dice che Giolitti si convinse di nazionalizzare le ferrovie, all’inizio del  secolo scorso, giacché fruendo degli utili delle società concessionarie dei trasporti ferroviari avrebbe migliorato sostanzialmente il bilancio dello Stato. Dopo due anni dalla nazionalizzazione, le ferrovie statali cominciarono ad avere il bilancio in disavanzo, con peggioramento del saldo dei conti pubblici. La propaganda fascista, negli anni venti e trenta del secolo scorso, tuttavia, confortava gli italiani affermando che i treni, gestiti dallo Stato, viaggiavano “in orario”. Non vorrei che l’illusione dei vantaggi delle nazionalizzazioni fossero a fondamento dell’onda, cavalcata dal M5s, prendendo spunto della disastrosa e luttuosa caduta di una parte del ponte Morandi a Genova, catastrofe che vorrebbe collegare, in via mediata, agli alti utili della società Autostrade, del gruppo Atlantia, che opera come concessionario per l’esercizio di circa 3.000 chilometri di strade riservate al trasporto su gomma.

Togliere dal mercato e dalla concorrenza interi settori produttivi, come la storia dimostra, non ha mai giovato né all’efficienza né alla produttività, né alla modernizzazione dei processi produttivi , né all’innovazione. Quindi significa avviare il Paese fuori dall’economia mondiale globale o anche solo multipolare. Dalla rete viaria, la via delle nazionalizzazioni si estenderà a tutti i servizi pubblici, fino alle banche e alle assicurazioni, come la storia dimostra, fino al completo isolamento dall’economia internazionale: una meta, raggiunta la quale, vi è solo la povertà,  il caos sociale, la distruzione della moneta. Insomma, avremmo spostato indietro l’orologio della storia, in nome dell’autonomia del Paese. Invero, in nome dell’autarchia.

Le imprese che possono evitare la deriva statalista sono quelle di piccole dimensioni, soprattutto se inserite, attraverso l’attività di import-export, nella economia internazionale. Forse il mondo produttivo italiano ha saputo ridurre i danni dello stato padrone, nell’esperienza fascista, proprio perché poggiante sulla piccola ma geniale e innovativa attività di piccole e medie imprese esposte alla competizione internazionale. Non di meno nessuna economia nazionale prospera se sottratta alla concorrenza estera e protetta dalla mano pubblica.

La tendenza alle nazionalizzazioni si giova grandemente del controllo sulla moneta e sul credito, ossia sul sistema creditizio e finanziario: quindi sulla proprietà delle banche e degli intermediari nel campo in esame. In altre parole,  sulla cinghia di trasmissione, via politica monetaria e creditizia, degli impulsi governativi di politica economica, giustificata  con la “tutela del risparmio” e qualificando di pubblico interesse l’intermediazione creditizia e finanziaria. Gli slogan delle economie chiuse, del nazionalismo.

La nostra costituzione e l’ordinamento in atto considerano le materie in discorso garantendo i diritti dei titolari di debiti con funzione monetaria degli intermediari e imponendo la trasparenza delle forme e dei rischi degli altri debiti, aventi natura di investimenti per i risparmiatori, nonché assicurando forme di tempestiva vigilanza e di rispetto dei criteri di buona e prudente gestione. Ma il confine con l’interesse pubblico dell’intermediazione creditizia e finanziaria e con un’efficace tutela della funzione monetaria dei debiti bancari è sempre prossimo e molto sottile. Basta qualche clamoroso “incidente” o qualche “squilibrio”, per invocata mala gestio in una banca di medio-grandi dimensioni (una delle prime quindici) o richiamare l’effetto di contagio di un intermediario sottoposto alle norme di risoluzione europee, per trovare il gruppo di eminenti uomini politici richiedente procedure di nazionalizzazione.

Procedure che se non contrastate sul piano intellettuale, trovano facile consenso nella pubblica opinione, timorosa e alla ricerca di sicurezza. Ma una impostazione che riporta di alcuni decenni all’indietro l’orologio della storia. In particolare in una nazione come la nostra, con una finanza delle imprese non volta al mercato, ma agli intermediari.

Procedure che avvierebbero l’Italia all’emarginazione nell’Unione Europea e poi, in prospettiva, alla rinuncia all’euro come moneta di base. Che,  non di meno,  richiedono, a mente della Costituzione, un approfondito dibattito parlamentare. Forse, appunto, un messaggio del Capo dello Stato alle Camere, gioverebbe, affinché non si creda che in via amministrativa il governo possa decidere, dando colpe e meriti.

Interessiamoci maggiormente della cosa pubblica. Lo slogan: “torniamo indietro e sarà un progresso” fa parte della tradizione di uno scarso senso dello Stato.

Bisognerebbe diffondere il mappamondo, per capire il poco peso dell’Italia rispetto al resto del mondo, anche se nessuno può negare l’importanza del made in Italy,  e la convenienza di non abbandonare la partecipazione all’Europa. Anche perché a chi fonda il proprio prestigio sull’autorevolezza del proprio pensiero è accordata la cortesia di un ascolto non distratto.